The Smiths: Suffer that Children

Artista: The Smiths
Album: The Smiths
Cover Artist: Steven Patrick Morrisey (Moz)
Etichetta: Rough Trade
Anno: 1984



Joe Dallesandro (dal film "Flash" di Paul Morrisey, 1968)

C'è sempre un attimo nella vita di ciascuno in cui, per qualche motivo inaspettato, si fa strada un incontenibile desiderio di fuga. E' qualcosa di inevitabile. A volte a scatenarlo è una situazione  diventata imbarazzante, oppure sgradevole Altre volte è una passione giunta al termine. Nel mio caso era semplicemente un bisogno di solitudine. Nient'altro.
Come conseguenza avevo cercato rifugio in un luogo lontano da tutto: da casa, dalla famiglia, dagli amici. Lontano dalle mie abitudini e dall'ambiente in cui ero cresciuto. Eppure, nonostante ciò, anche in quel luogo avevo ancora una strana sensazione: percepivo che stava finendo un'epoca, ma non immaginavo ancora in che modo sarebbe successo.
Certo, sarebbe stato facile tornare indietro e rifare esattamente le cose di prima, frequentare gli stessi posti, le stesse persone, eppure intuivo che nonostante mi trovassi in una situazione bizzarra avrei potuto cogliere quell'occasione per azzerare il contatore della vita e ricominciare tutto da capo. Capivo che proprio lì, in quella remota parte del mondo, avevo a disposizione quel trampolino che poteva lanciarmi lontano, oltre quel vuoto che mi opprimeva.
In quel periodo che ricevetti una delle rare lettere di Enrico.

Da molto tempo non avevo sue notizie e nonostante fossimo cresciuti insieme, senza un preciso motivo ci eravamo persi di vista, nonostante le nostre case fossero a meno di cento passi di distanza l'una dall'altra.
A ripensarci, oggi, sono certo che lui disapprovasse totalmente il mio modo di vivere di quel periodo e disprezzasse quella fauna di ambigui personaggi che popolavano le mie giornate. Considerava la mia condizione una resa indecorosa, una specie di mesto riflusso verso spiagge sterili e poco originali, alle quale ero approdato dopo gli anni durante i quali avevamo cercato insieme di spingerci sempre più in là, nell'assurdo tentativo di glorificare la nostra vita con scelte estreme e pensieri scomodi. Eravamo arrivati al punto in cui tutto sembrava fosse così spontaneo e naturale. Finché iniziammo a smarrire l'originalità che ci aveva animato inizialmente.

Quindi, ricevere quella lettera, fu per me qualcosa di particolarmente importante.



Enrico era un tipo molto attento ai piccoli segnali, alle impercettibili variazioni che avvenivano nella società e nel mondo. Era come se avesse lunghe sensibili antenne con le quali captava le molecole sciolte nell'aria e stabiliva la loro consistenza chimica. In questo modo riusciva, quasi sempre, a prevedere ed anticipare tutte le tendenze, le avanguardie, le mode e le correnti di pensiero più influenti. Alcuni hanno questa innata capacità, ma in questo caso non parliamo di un semplice gusto estetico o di un personale interesse verso questo o quell'altro argomento, bensì una sottile sensibilità nel percepire la contemporaneità che impermea il mondo in cui viviamo.
Invidiavo quella sua naturale predisposizione ad essere sempre un paio di passi oltre i tempi, costantemente aldilà del gusto medio, della superficialità, dell'ordinario. Anche a costo di personali scelte impopolari e a volte contraddittorie.
Qualche anno più tardi, mentre leggevo Ulisse di Joyce, ebbi anch'io l'intuizione che mi aprì gli occhi  e mi fece capire quanto fosse determinante vivere fino in fondo il proprio tempo. Finalmente riconoscevo cosa significasse qui e adesso, e lo accettavo come fosse una medicina inevitabile, anche se amara, ma sicuramente utile per contrastare l'anacronismo di certi rifiuti mortali.
Del resto l'ostinato scarto nei confronti del progresso tecnologico o la repulsione verso una società multirazziale sono spesso i prodotti di arbitrali atteggiamenti in netto contrasto con il proprio tempo. Viviamo in un'epoca in cui la curiosità si nutre esclusivamente di sbirciate dal buco della serratura, affinchè non ci sia mai il pericolo di doverla appagare di persona.
Enrico, viceversa, era un magnifico illusionista della modernità,

[...] sono anche contento che tu abbia riacquistato una parte dell'originalità che ti contraddistingueva. Il mondo, con il suo conformismo, con il suo piatto grigiore, ti impone degli stili di vita... Mi sembrava che tu, come me, avessi fatto una scelta di campo ben precisa. E la nostra originalità? E il nostro "antagonismo"? Bè, non sono morti, anzi rivivono dovunque e qualunque cosa noi facciamo. Come potrebbe essere diversamente? Non è "antagonismo" a parole, superficiale, momentaneo, ma è maturato da quasi quattro anni di contatto con questa natura che ci ha accolto, cresciuto e che ci circonda tuttora. Qualcuno direbbe che è pazzesco e demenziale, ma per noi è semplicemente naturale. E' una palestra che ci ha plasmato e che ci caratterizzerà ovunque saremo... La natura in autunno non è cambiata: c'è sempre il pallido sole che fa presagire a quel sole giallo canarino di gennaio alle quattro del pomeriggio... la terra incomincia a farsi più scura, la visibilità meno limpida, i colori più tenui. Già! E' proprio bello ottobre... ma il primato spetta ancora alla campagna, alla nostra campagna, quella abitata da quella fauna di Ligabue, gente strana ed ubriaconi, non certo quella commerciale del footing, delle famigliole al picnic o dalle coppiette che non hanno un briciolo di fantasia nemmeno in amore... Ho comprato un disco stupendo che in alcuni punti si avvicina ai livelli più intensi di Joni Mitchell: è Song To Remember di Scritti Politti... Ciao, Enrico, 28 settembre 1982.

Una lettera pesata con un bilancino e tagliata come droga. Magica come l’arte di un prestigiatore e truccata come le carte di un giocatore di poker.
Le nostre radici, quelle di ragazzini precoci, sembravano sempre là. Immutate, incontrastate, indiscusse. Eppure, nonostante tutto ciò, un'accelerazione verticale si era già delineata trasformandosi in qualcosa di più sottile e complesso: era il mio mondo, la mia musica, i miei valori che sembravano invecchiati e stavano morendo inesorabilmente. Davanti ai miei occhi diventavano il passato. Per chiudere il cerchio mancava solo il passaggio cromatico di cui avevo bisogno per assimilare le nuove espressioni di pensiero e di tendenza. Era l'amara constatazione che stavo appassendo intellettualmente anch'io. Allora, il mio essere antagonista? La mia originalità? L'anticonformismo?
Tutto falso, evidentemente.




Da quel preciso momento ero costretto ad innescare un'analisi più complessa per comprendere che i miei gusti e i miei interessi dovevano assumere una valenza più importante e profonda. Dovevo trasformarli in cultura in senso stretto e non in un semplice divertissement da sognatore romantico, altrimenti non avrei mai avuto una vera evoluzione. Chi apprezzerebbe la musica di Alban Berg o Stockhausen o semplicemente Stravinsky se non si ponesse in quell'ottica? Se leggessimo, guardassimo o ascoltassimo solo quello che consideriamo gradevole e carino, tenderemmo poco alla volta ad esaurire la nostra vene creativa e la nostra immaginazione, cioè quelle caratteristiche che fanno della nostra intelligenza qualcosa di unico. Ci faremmo impaurire dai nostri stessi pensieri e verremmo sopraffatti dalla fatica di comprendere l'armonia dell'incomprensibile. Resteremmo individui insignificanti e volgari. Persone modeste e moderate nel pensare, nell'agire, nel vestire, nel parlare e perfino nel cucinare o nell'amare.
Ma io purtroppo non possedevo la lungimiranza di Enrico, né la sua intraprendenza e neppure quella sua arguzia intellettiva. Quindi, se volevo veramente rimanere agganciato al mondo in cui vivevo, non mi restava altro che impegnarmi a fondo per comprendere e assimilare quella nuova trasformazione sociale. Cominciai così a seguire a distanza i suoi interessi, soprattutto quelli musicali, cercando di intuire quei percorsi logici che potessero inocularmi poco alla volta le nuove idee e focalizzare una nuova visione artistica. Ma arrancavo a distanza, e faticavo molto per non affogare dentro le onde davastanti che le note di quei dischi maledetti sollevavano.
Raccolti sotto i più dispersi stili espressivi, inizia a sgranare, uno dietro l'altro, in tutte le loro sfumature, le tendenze musicali e artistiche più pulsanti del momento. L'anarchia sonora dei Crass e Dead Kennedys, l'industrial dei D.A.F., il goth-rock dei Virgin Prunes e Christian Death, la new wave dei Joy Division e Wire, il synth-pop dei Wolfgang Press, il post-punk degli Stranglers e gli X, per finire lo psychobilly dei Cramps e Gun Club. Praticamente tutto il meglio della musica indipendente di quegli anni (e se ho tralasciato qualcuno, l'ho fatto apposta) mi veniva regolarmente presentato da Enrico come "il capolavoro", il disco seminale dopo il quale la musica  rock non sarebbe stata più la stessa.
Ma lo ammetto: spesso mi capitava di ascoltare perplesso e, il più delle volte, persino annoiato. Ero ancora troppo intriso di melodie armoniche per apprezzare e accettare pienamente lo strappo culturale che mi veniva servito sul piatto. Ma, accidenti, dovevo resistere! Quella ERA la musica del mio tempo ed io ero ancora testardamente anacronistico! Terminata l'era psichedelica, seppellito il movimento prog, ammuffita in soffitta la west coast ed io che mi ero già perso il meglio della punk revolution e la moda rocksteady, ero stufo di essere solo sfiorato da tutto questo. Dall'America sbarcavano gli scrittori minimalisti e il cinema off-off della trasgressione, in Inghilterra la new wave era la controcultura emergente e io vivevo ancora all'età della pietra, con la pelle di orso e la clava in mano.

Ma una sera, come tante altre, arrivò finalmente il disco che squarciò come un lampo il cielo notturno e mi lasciò letteralmente folgorato.
Era l'inizio del 1984.

Già prima di ascoltarlo mi colpiva la sua copertina, sulla quale spiccava una foto virata marrone del busto di Joe Dallesandro, un attore della Factory di Andy Warhol, e in alto a destra un cognome volutamente comune: The Smiths (I Rossi, per usare un cognome nostrano)
A volte considero un ostacolo dal quale mi libererei volentieri, quel mio gusto squisitamente elisabettiano verso la melodia. Non è che sia qualcosa di cui vergognarsi, tutt'altro, ma sento che tende a condizionare terribilmente l'impatto del primo ascolto. E' la prima cosa che ricerco e che mi colpisce, e gli Smiths erano la quintessenza della melodia.
Per capire subito gli umori di quel loro primo album, non era alla foto di copertina che occorreva guardare, ma semmai alla tinta seppiata e intrisa di malinconia o al taglio dell'immagine, sgranato, solitario, crepuscolare e decadente.
Già dalle prime note di Reel Around The Fountain, gli arpeggi della chitarra di Johnny Marr e la linea vocale di Morrisey (Moz, per gli amici) era dominato da un senso di pacifica, spigolosa e sensuale tristezza, mentre nubi inquiete ingrigivano nelle liriche, taglienti e stonate. Era musica varia ma omogenea, più adatta ad un giorno di pioggia. Un brano che da solo evocava tutta l'estetica del gruppo.
In fondo che cosa cerchiamo nella musica pop? Una melodia che circoli nel cuore e nell'anima e una frase che descriva talmente bene le nostre sensazioni, che vorremmo averla scritta noi. Che altro?
Ecco perché gli Smiths sono stati per me lo specchio di un preciso stato d'animo: quello di uno spensierato giro in campagna con l'epilogo di un acquazzone che ti sorprende all'improvviso. O la sensazione che hai sulla pelle, quando indossi una vecchia maglietta consumata, dalla quale non puoi separarti (la mia ha stampata sopra la copertina di Hatful Of Hollow).


Grazie alla loro musica ero riuscito nuovamente ad intrecciare le emozioni della mia vita con la semplice purezza di una canzone pop. Certa musica non è importante in sé (se non per via del suo potere, a volte virale e a volte guaritivo) ma se la si scandaglia attentamente può fornire spunti per percepire la contemporaneità del momento in cui viviamo. Certo, non può essere una canzone a farti scoprire l'orrore di una guerra o farti rivivere il languore di un amore svanito, ma sicuramente può aiutare a farti sentire vivo e reale nel momento in cui la ascolti e percepisci quelle sensazioni. Siamo noi a far rendere partecipe della nostra vita quella canzone, non viceversa. E proprio questo la rende esclusiva ed unica perché lavora nel subconscio e ci trasmette la consapevolezza di essere individui sensibili, inducendoci a scavare più in profondità, ad andare oltre.
Potremmo perfino timidamente confessare che dopo aver ascoltato una canzone che declama che "persino il cielo sapeva quanto eri infelice", anche le nostre inquietudini si ammorbidiscono un pochino. In fin dei conti sono solo motivetti pop, buoni solo a non farti sentire banale, ordinario, scontato, mediocre, usuale, consueto, convenzionale, insignificante, insipido, piatto, scialbo, dozzinale, ovvio, scontato, risaputo, trito e ritrito. Ed anche se per me non sono necessariamente tutte caratteristiche negative, devo riconoscere che non conosco nessuno che le ambisca. Persino i personaggi dei film con queste caratteristiche, alla fine, hanno un'occasione per riscattarsi e far ribaltare il giudizio dello spettatore. Questa possibilità è una finestra sincera (e talvolta soffocata) sulle contraddizioni odierne, sui disagi, sulle difficoltà, sui cambiamenti della società e della vita. Tutte cose che ci coinvolgono, anche contro la nostra volontà. Ma quando l'arte non è business (e succede raramente) tende ad assomigliarci. E se questo non succede... beh, allora dobbiamo essere proprio noi a cerca di assomigliare a lei. In fondo le sensazioni e le esperienze umane sono sempre le medesime e tendono tutte ad assomigliarsi tra di loro. Quello che fa la differenza è come ognuno di noi le percepisce, e che tipo di esperienza decide di trarne.

Parlo di sensazioni, di impressioni e non di gusto. Quello è una invenzione del marketing. Parlo dell'identificazione di una generazione che, sotto sotto, si riconosce nella solitudine. Parlo di malessere, di inquietudine. Insomma, tutto quello che vi pare purchè sia presuntuosamente impeccabile. Quindi ascoltate bene questo disco e decidete da che parte stare, e se potete ricominciare, fatelo anche voi da zero, partendo da questa decisione. Un po' come è capitato a me.

© paroleopache

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