Peter Gabriel: Start/I Don't Remember

Artista: Peter Gabriel
Album: Peter Gabriel (III, Melt)
Cover Artist: Storm Thorgerson, Hipgnosis
Etichetta: Mercury/Geffen Records
Anno: 1980




Se non avessi sognato sulle voci di malinconiche musiche durante la mia adolescenza, oggi non saprei ascoltare i sogni altrui e non potrei comunicare con loro. Non riuscirei neppure attingere dalla loro bellezza e scambiali con altri sogni. Non potrei visitarli, come fossero case. 
In quella musica c'era una sorta di corrente sotterranea, qualcosa che neppure oggi saprei decifrare.  Come nei migliori film o nelle grandi opere d'arte, qualche cosa scorreva là sotto. Quelle note erano come una melma viscida e appiccicosa che rimaneva attaccata addosso. Scorrevano placide, mentre risalivano lentamente lungo le vene attraverso le viscere, come un magma denso e bollente. Note che strapazzavano i neuroni e svillaneggiavano nei centri nervosi del cervello. Note che si facevano strada roboanti nella cassa toracica e che si divertivano a rallentare e accelerare i battiti cardiaci. Note che trasalivano amare come bile, per poi finire col depositarsi languide sul fondo dell'anima. Dove restano tuttora assopite. 
Era necessario ascoltare a fondo ogni singola nota perché per cogliere l'intimo significato non bisognava lasciarsi sfuggire il minimo suono che, se percepito in una o in un'altra maniera, avrebbe potuto dare un significato, un'intensità poetica e un piacere diversi.
Quando alcune decine di anni fa il discusso poeta Ezra Pound, in uno dei suoi memorabili cantos, recuperava dalla tradizione il termine periplum, nessuno avrebbe immaginato come quella nozione (tanto cruciale per tutto il nostro secolo) diventasse, in verità, indispensabile proprio per non annasparvi dentro. Il termine periplum è tratto dal linguaggio della navigazione (dal greco peri + paleo: navigare intorno) e comporta l'andare per mari sconosciuti e in prossimità di coste ignote. In questo senso, spesso, il suo flutto comporta la stesura di un portulan ovvero di una mappa del tragitto percorso in quelle acque fino ad allora mai solcate. E' un evento che, pur accadendo in un ben preciso spazio e in un tempo definito, può non avere limiti e soprattutto non può essere previsto. Come un vero e proprio happening.
Il periplum e il portulan sono quindi un addentrarsi empirico in prima persona nelle spirali dell'ignoto, un'esperienza assurta a conoscenza. Come se un gran quantità di giorni si fondessero in uno solo, formando un unico affresco ininterrotto di tempo, allo scopo di ricreare una parvenza di come, in effetti, dovrebbe essere la vita se questa potesse manifestarsi nella sua natura più pura. Senza quegli alti e bassi necessari a ritmare la storia.
Ecco come, allora, il racconto anche solo di cinque minuti di pensiero interiore può occupare una vita intera. Il che, se ti fermi a pensare, fa anche incazzare parecchio. Perchè posso anche riconoscere che la vita - come la natura - sia un rifugio (e questo riesco a comprenderlo), ma sono le altre questioni, quelle umane e spirituali che mi disorientano. E spesso mi lasciano perplesso.


Nella tarda primavera del 1980, Alessandro perse sua madre. 
Solo pochi mesi prima la sua famiglia, si era trasferita nella loro città d'origine, giù al mare. La speranza era che il clima favorisse lo stato di salute. Oppure perchè in certe situazioni si sente più forte il legame ed il richiamo della propria terra di origine.
In fondo c'è sempre un momento nel quale, per qualche ignoto mistero, le proprie radici si camuffano da sirene e con i loro richiami attentano al nostro recondito desiderio di sentirci legati (direi quasi posseduti) dai luoghi dove siamo nati e cresciuti. Una questione di imprinting, probabilmente.
Fatto è che quando sei poco più di un adolescente, la morte, il lutto, non è roba da prendere in considerazione. Certo, erano cose di cui eravamo al corrente: sapevamo tutti che un giorno, prima o poi, in un modo o nell'altro, avremmo dovuto fare i conti, ma nessuno di noi si aspettava d'incontrali così in fretta. Non eravamo preparati, né sapevamo come comportarci, quali parole usare, che gesti compiere. Non avevamo neppure gli abiti di circostanza da indossare. E questo perché, semplicemente, rifiutavamo anche solo fatto che potesse riguardarci. Andava giusto bene leggerla sulla cronaca locale dei giornali o sentirne parlare dai vicini di casa. Il massimo che ti poteva capitare era che qualche sconosciuto zio dei tuoi genitori passasse a miglior vita, ma niente di più. Insomma, la morte era cosa sostanzialmente cosa altrui.
"Il male più orribile, la morte, non ci riguarda, perché finché esistiamo la morte non c'è, e quando arriva non ci siamo più. Perciò non riguarda né i vivi né i morti. I primi perché non li tocca e gli altri perché sono stati già toccati…" Eppure, in ognuno di noi, sotto pochi millimetri di pelle, marcia anche uno scheletro. Sotto ogni viso se ne sta un sorriso muto, che digrigna i denti.
Prosegue Epicuro: "…la massa, naturalmente, a volte rifugge la morte come il male più brutto, altre volte la cerca come sollievo ai mali della vita. Il saggio, invece, non rifiuta la vita, né teme il non-vivere". In definitiva, il saggio tiene la morte lontana da sé, attraverso un'eloquente disquisizione filosofica che si riassume nel più semplice gesto dello struzzo che infila la testa nella sabbia.


Assieme ad altri tre amici andammo al funerale in treno e una volta arrivati a destinazione percorremmo a piedi qualche chilometro di litorale sotto un piacevole tiepido sole, giusto per sgranchire i pensieri. Poi prendemmo una deviazione verso l'interno e, lasciandoci il mare alle spalle e il sole allo zenith, imboccammo una piccola strada in salita, sino alla loro casa.

Ma, arrivati a questo punto del racconto, i ricordi di quel giorno svaniscono, scompaiono come inghiottiti nel buco nero della mia memoria. Non ricordo più cosa successe, le cose che facemmo, quali chiacchiere con i parenti. Non ricordo nulla della cerimonia, né che atmosfera ci fosse. Il blackout è così convincente da giurare di non esserci neppure stato al funerale, se non fosse per un unico, insignificante e breve flashback...
Sono seduto sul letto, in camera di Alessandro. E' una sorta di tatami giapponese: un semplice materasso a molle steso per terra, appoggiato sopra un gigantesco tappeto cremisi dai disegni écrous spesso due dita, che ricopre i due terzi del pavimento. Pratico e originale, penso tra me mentre mi accorgo che in quella stanza, che credevo di ricordare, tutto è (o appare) cambiato.
L'ultima volta che ero stato lì fu durante le vacanze scolastiche di Natale. Era il 1978. Giorgio ed io eravamo venuti a trovarlo e ci eravamo fermati qui per due o tre giorni. Avevamo dormito in questa stessa stanza che, allora - grazie a noi - aveva un look decisamente più zingaresco, con borse e vestiti sparsi un po' ovunque. E siccome in quei giorni avevamo una gran voglia di fare un po' di baldoria assieme... per festeggiare ancora meglio la rimpatriata, eravamo riusciti a "prendere in prestito" alcuni dischi dagli scaffali dai magazzini Standa e avevamo trascorso tutta le notti a chiacchierare e ascoltare musica, fino all'alba.

Appena realizzo il cambiamento, mi sollevo sulla schiena e mi appoggio al muro. Incrocio le gambe, sollevo il capo e inizio a guardarmi attorno, incominciando dai posters che tappezzano ogni centimetro sui muri. Ci sono locandine, foto, gadget, biglietti di auguri e ritagli di giornali appiccicati alle pareti con gocce di silicone trasparente. Sono praticamente ovunque, persino sulle ante del piccolo armadio biancoceleste.
Dal bordo di una mensola noto anche una quantità esagerata di bottiglie di birra vuote. Se ne stanno allineate e solenni come una squadra di calcio durante l'inno. Le osservo con curiosità e ho l'impressione di venire ricambiato dagli stessi sguardi perplessi. Ci guardiamo così, io e le bottiglie. In silenzio. E vuoti dentro.
Alessandro invece è in piedi, con la schiena rivolta verso di me. Tiene una mano nella tasca posteriore dei jeans mentre con l'altra sfoglia lentamente una risma di ellepì allineata lungo un ripiano interno dell'armadio. Sento il lento fruscio. Esita, scarta, controlla, ne estrae uno.
Dalla foto in bianco e nero della copertina riconosco un volto familiare, sebbene deformato. La parte sinistra del viso sembra sciogliersi, cola come un ghiacciolo al sole, creando un effetto involontariamente realistico. Eppure, nonostante la mostruosità dell'immagine, l'aver riconosciuto quel volto mi infonde rassicurazione. Forse... forse non tutto è cambiato. E casualmente ripenso ad un aforisma: "Tutto deve cambiare, affinché tutto rimanga come prima" e mi sembra perfetto per questo momento.


“Hai già sentito l'ultimo disco di Peter Gabriel?”
“Eh?... ah, no. Non sapevo che ne avesse fatto uno nuovo”.
Non si gira neppure. Rimane in silenzio mentre apre il coperchio del piatto e infila il 33 giri. Poi accende l'amplificatore Kenwood (di cui va molto fiero) e regola il volume. Rimango col fiato in sospeso, come sempre mi capita mentre attendo di ascoltare le prime note uscire dai diffusori. Muove il braccio e la Stanton emette un leggero sibilo. Sccrraachhh...senti questa...BUM BUM TRAK BUM (pausa) BUM TRAK... i am the intruder... no, aspetta ...ho sbagliato, ...non è questa...
Ancora oggi sono convinto che la sua intenzione fosse quella di farmi ascoltare "I don't remember", dove il riff graffiato ed i suoni asciutti e secchi delle chitarre e del drumming avrebbero dovuto servire a rigenerare i nostri comuni gusti musicali.
Inoltre era anche il manifesto del mutamento di Peter Gabriel e il suo riallineamento col nuovo mondo che cambiava pelle sociale (e con lui il rock). Era la sua svolta new wave, se così possiamo definirla. Ma sbagliò brano, così capitò che la prima cosa che ascoltai di quell'album fu l’introduzione strumentale che lo precedeva.
"Start" non era altro che la breve anticamera di “I don’t remember”, ne anticipava l'inciso rendendolo marcatamente più sinfonico, più cupo e lugubre. Il tempo era rallentato fino a rendere la melodia quasi irriconoscibile lasciando al sassofono un breve fraseggio solista, suonato come sospeso nel vuoto, strafatto com'era di echi e riverberi siderali.
Bè... potete credermi o meno ma quel minuto e venti di musica toccò le corde più sensibili della mia anima, e mi commosse fino al groppo in gola. Inconsapevolmente aveva incarnato lo spirito più sacro di quel giorno. Con Alessandro non parlammo mai di quel pomeriggio, neppure negli anni seguenti. Ci limitammo solo ad ascoltare in silenzio quel breve e casuale intermezzo musicale che, nella sua intensità, sembrava essere interminabile.
Ancora una volta la musica esprimeva quello stato d'animo che le parole non avrebbero saputo trasmettere. Perché era quella stupenda forza oscura che non si poteva spiegare, che agiva in base alla sensibilità soggettiva e non sapevi mai dove ti avrebbe condotto con la mente.
Forse in qualche piega spazio-tempo e dimensione dell'esistenza. Forse in qualche altro luogo.


Questo argomento, in realtà, è servito per spiegare il fatto che proprio a partire da quel giorno ho incominciato seriamente a pensare alla musica che avrei voluto accompagnasse il mio funerale. Parlo della colonna sonora del mio trapasso, la compilation da condividere con il Traghettatore dell'Ade durante il viaggio senza ritorno.
Proprio così: da quel momento non ho potuto più evitare di pensare alla musica come colonna sonora del mio funerale. E dire che come tema di discussione da bar o da dopocena, a casa di amici, ha sempre avuto un discreto successo perché, di solito, incoraggia la gente a mettersi un po' a nudo, a tirare fuori il peggio, il meglio o il nulla di sé.
E l'argomento salta sempre fuori in maniera sistematica, quasi ci si senta in dovere di parlarne.
Non fraintendete: non è che ci si debba sentire obbligati a lasciare questa vita piena di affanni mortali anzitempo - certo che no - ma visto che tanto prima o poi dovrà pur succedere, tanto vale incominciare a lavorarci sopra. Giusto per scaramanzia.
In maniera blanda si può iniziare a compilare la propria playlist consona all'evenienza, proprio per non trovarsi impreparati al momento, diciamo così, opportuno. Preparare lo spirito, invece... bè, quello chiaramente è tutt'altra faccenda.
Quindi, personalmente, se mai dovessi stilare le mie volontà testamentarie, allora metterei ...diciamo a pagina tre, una clausola dettagliata sull'organizzazione del mio funerale. Ad esempio disporrei per la mia cremazione e indicherei pure l'abito che gradirei indossare per il viaggio nell'aldilà: una comoda t-shirt sotto un leggero completino casual in lino. Inoltre sarei anche lieto che le mie ceneri servissero da concime o da antiparassitario per i fiori e le piante del mio giardino. Ma, essendo io defunto, è probabile che il giardino passi di mano a nuovi proprietari che potrebbero non gradire la mia sulfurea presenza tra i cespugli di tarassaco e le bietole selvatiche. Quindi su questo punto mi riprometto di apporre qualche modifica o qualche aggiornamento.
A queste disposizioni seguirebbe, poi, una lista dettagliata di che musica dovrà essere messa durante la cerimonia. Ovvero cinque canzoni, non una di più.

uno:
"Avec le temps" - Leo Ferrè ("Amour Anarchie", 1970)
Un classico del grande chansonnier francese che molta gente diretta in chiesa riconoscerà immediatamente fin dalle prime note, mentre con lo sguardo seguirà il feretro oltrapassare il sagrato e la porta d'accesso, verso l'altare. Profetica.

due:
"Alti-Plan" - Magik Malik Orchestra ("00-237", 2005)
Di questo brano esistono due versioni: la prima è tratta dall'album "69-96" ed è basata su un semplice tema popolare dal ritmo andino, nel quale si inserisce il fraseggio del flauto di Malik Mezzadri.
La seconda versione è di gran lunga la mia preferita: lo stesso tema viene ripreso e stravolto al rallentatore. Gli accordi iniziali lentissimi di organo annunciano subito la cupa tela sulla quale andranno ad inserirsi, sporadicamente, le note oniriche del flauto. A completare il quadro, una massiccia dose di eco e i mugolii - come creatura d'incubo - della voce soffiata nello strumento, impreziosiscono la trama come piccoli riflessi fluorescenti di cristallo. Da considerare come il mio personale tributo alla musica jazz contemporanea.

tre:
"The Last Goodbye" - Jeff Buckley  ("Grace", 1994).
Sarà per via del titolo. Sarà perché non sono mai riuscito a suonarla per intero (nonostante i mille tutorial su youtube). Sarà perché quando uscì "Grace" tutti ne parlavano talmente bene che a me passò la voglia di ascoltarlo. Sarà perché il riff di basso sembra una cavalcata nella prateria. Sarà perché ha quel sapore esotico che rievoca Kashmere degli Zeppelin (con tanto di violini).
O, più semplicemente, sarà perché mi piace e scioglie ogni tensione.

quattro:
La botta finale - per così dire - avverrà quando il feretro, lasciando la chiesa per essere portato verso la cremazione, verrà scortato dai soli primi quattro minuti e mezzo di "Starless" - King Crimson (Red, 1974), cioè fino a dove è perenne il respiro del mellotron, prima del crescente delirio noise-hard-jazz-avantgarde tanto caro a Fripp ma poco adatto ad un funerale (perlomeno al mio).
Nel brano si narra la storia di un uomo che nasce nell'innocenza inconsapevole, percorre una strada e acquista conoscenza, per poi ritornare allo stato primario, ma cosciente.
La linea melodica indimenticabile di Fripp si fonde con il mellotron, alternandosi alla voce volumetrica e malinconica di John Wetton ed all’intercalare del sax. Poi, come dicevo, un ostinato accordo minimale alla chitarra sale all'infinito fino a una furibonda jam che, all'apice della tensione, si libera nella ripresa della primitiva linea melodica, con il basso tuonante che ti entra nello stomaco. Nella speranza che, a questo punto, tutti siano in lacrime. Catartico.

cinque:
Adesso che la bara è andata, sparita dietro una spessa tenda di velluto rosso, e i fazzoletti sono tornati dentro le borsette e nelle tasche dei pantaloni, la gente inizierà a lasciare il crematorium accompagnata da "In the neighborhood" di Tom Waits (Swordfishtrombone, 1983), una canzone del vecchio Tom che incede lenta, strisciando i piedi a tempo di una marcia funebre suonata da una fanfara di paese, ingaggiata nel pub di un luna-park. Questa marcetta però è unica: un inconfondibile innesto di vaudeville e blues sopra un jazz alcoolico e pieno di sulfureo onirismo anche se - per fortuna - è inzuppata di una straordinaria quanto inaspettata allegria.
Se qualcuno disse (a ragione) che per creare uno stile ci vuole del genio, qui ce n'è da vendere sia di uno che dell'altro. Malinconica quanto basta per trasformare le lacrime in una dolce serenità. Sempre sperando che fuori ci sia il sole. Alleluja.


© paroleopache